Non mi abituerò mai alle cose che cambiano, soprattutto a quelle che cambiano in peggio.
Ieri sono stata a trovare mia nonna, che abita in un vecchio palazzo di quattro piani, in Piazza dei Mille, a Livorno. Arrivando da Piazza della Repubblica sono passata da via della Pina D'oro. Un tempo qui c'era un grande magazzino di dolciumi, poi una pescheria di quelle dove si sentiva parlare il vero livornese, con le donne in fila con le mani sui fianchi e le borse piene di spesa, e dove a fine giornata rivoli di acqua insaponata scivolavano via sul marciapiede; c'era il pasticcere di quartiere, prima Vaiani e poi Ciardelli, che insaporiva l'aria della strada rendendola fragrante e zuccherata; c'erano i panifici e un bar di vecchio stampo, dove andavo a comprare il calippo e rigorosamente mi ustionavo le mani tanto era freddo e restio ad uscire dalla confezione; c'era il norcino con le salsicce e i prosciutti appesi al soffitto: uno dei proprietari un giorno si era affettato via di netto un bel ditone; dopo, continuando sul marciapiede, c'era Velia, la verduraia, dove andavo sempre con babbo o con nonna: uno stretto negozietto che odorava di cose sane; c'era una rivendita di liquori e poi il mitico Prezzaccio che vendeva detersivi. Avvicinandosi all'angolo con via Terrazzini c'era un vinaio, un ristorante e poi tornando verso la piazza un negozio di occhiali, altri panifici, una mesticheria e tutto ciò di cui viveva la gente del quartiere. C'era anche un piccolo laboratorio, per chi lo ricorda, vicino alla pasticceria, dove un signore in pensione creava cornici di legno e dove una bambina giocava con una grossa calamita ad acchiappare quanti più chiodi poteva, c'erano trucioli ovunque e farina di legno, un odore buonissimo che ancora oggi posso sentire se chiudo gli occhi.
Quella bambina ero io e quel signore era mio nonno, Dino.
Le persone camminava sui marciapiedi, mentre tornavano a casa o andavano a lavoro, da sole o con i bambini, e si fermavano a fare due parole sugli usci. Non erano negozi, erano botteghe piene di storie e di vita. Le donne s'affaciavano dalle finestre per richiamare i mariti o i figlioli in casa, anche mia nonna faceva così: se aveva bisogno di qualcosa si sporgeva dalla finestra del terzo piano e urlava o sbracciava per salutare qualcuno e chiedergli le novità. Ieri sono passata attraverso una piazza fantasma, solo "circoli" di extracomunitari dove non sai cosa succede, bui, senza identità o sapore, vuoti e tristi. Non c'è più la pescheria, nè la pasticceria, nè la rivendita di liquori, nè Velia e le sue verdure, il negozio d'occhiali e il norcino e via così. Resiste ancora la Granaia, un gioiellino di bottega a conduzione familiare, un negozio di gastronomia e qualche altro. La Piazza è morta e così la vita che la animava a tutte le ore del giorno, anche la sera quando le vecchie si ritrovavano fuori dai portoni a frescheggiare. Nonna è prigioniera di un letto con le sbarre, stanca di lottare, non si affaccia più alla finestra ma proprio ieri mi ha detto che se fosse ancora quella d'un tempo gliene avrebbe dette quattro a quelli del circolino, e credo non si sarebbe vergognata a tirare anche un secchio d'acqua (cosa che se non ricordo male ha già fatto in passato).
Nonna rispecchia la piazza.
Sono triste perchè ho paura che nessuno riuscirà a farla tornare agli antichi splendori.
Quando mi allontanavo da casa sua lei mi guardava andare via, dalla finestra che era il suo occhio su quel micromondo, finchè non sparivo dietro l'angolo, ed io mi giravo di continuo per salutarla con la mano. Camminavo sapendo che lei o nonno erano lì a guardarmi le spalle.
Non c'è più nessuno a quella finestra ma l'abitudine si sa è dura a morire, io mi volto sempre a cercarli.
Ieri sono stata a trovare mia nonna, che abita in un vecchio palazzo di quattro piani, in Piazza dei Mille, a Livorno. Arrivando da Piazza della Repubblica sono passata da via della Pina D'oro. Un tempo qui c'era un grande magazzino di dolciumi, poi una pescheria di quelle dove si sentiva parlare il vero livornese, con le donne in fila con le mani sui fianchi e le borse piene di spesa, e dove a fine giornata rivoli di acqua insaponata scivolavano via sul marciapiede; c'era il pasticcere di quartiere, prima Vaiani e poi Ciardelli, che insaporiva l'aria della strada rendendola fragrante e zuccherata; c'erano i panifici e un bar di vecchio stampo, dove andavo a comprare il calippo e rigorosamente mi ustionavo le mani tanto era freddo e restio ad uscire dalla confezione; c'era il norcino con le salsicce e i prosciutti appesi al soffitto: uno dei proprietari un giorno si era affettato via di netto un bel ditone; dopo, continuando sul marciapiede, c'era Velia, la verduraia, dove andavo sempre con babbo o con nonna: uno stretto negozietto che odorava di cose sane; c'era una rivendita di liquori e poi il mitico Prezzaccio che vendeva detersivi. Avvicinandosi all'angolo con via Terrazzini c'era un vinaio, un ristorante e poi tornando verso la piazza un negozio di occhiali, altri panifici, una mesticheria e tutto ciò di cui viveva la gente del quartiere. C'era anche un piccolo laboratorio, per chi lo ricorda, vicino alla pasticceria, dove un signore in pensione creava cornici di legno e dove una bambina giocava con una grossa calamita ad acchiappare quanti più chiodi poteva, c'erano trucioli ovunque e farina di legno, un odore buonissimo che ancora oggi posso sentire se chiudo gli occhi.
Quella bambina ero io e quel signore era mio nonno, Dino.
Le persone camminava sui marciapiedi, mentre tornavano a casa o andavano a lavoro, da sole o con i bambini, e si fermavano a fare due parole sugli usci. Non erano negozi, erano botteghe piene di storie e di vita. Le donne s'affaciavano dalle finestre per richiamare i mariti o i figlioli in casa, anche mia nonna faceva così: se aveva bisogno di qualcosa si sporgeva dalla finestra del terzo piano e urlava o sbracciava per salutare qualcuno e chiedergli le novità. Ieri sono passata attraverso una piazza fantasma, solo "circoli" di extracomunitari dove non sai cosa succede, bui, senza identità o sapore, vuoti e tristi. Non c'è più la pescheria, nè la pasticceria, nè la rivendita di liquori, nè Velia e le sue verdure, il negozio d'occhiali e il norcino e via così. Resiste ancora la Granaia, un gioiellino di bottega a conduzione familiare, un negozio di gastronomia e qualche altro. La Piazza è morta e così la vita che la animava a tutte le ore del giorno, anche la sera quando le vecchie si ritrovavano fuori dai portoni a frescheggiare. Nonna è prigioniera di un letto con le sbarre, stanca di lottare, non si affaccia più alla finestra ma proprio ieri mi ha detto che se fosse ancora quella d'un tempo gliene avrebbe dette quattro a quelli del circolino, e credo non si sarebbe vergognata a tirare anche un secchio d'acqua (cosa che se non ricordo male ha già fatto in passato).
Nonna rispecchia la piazza.
Sono triste perchè ho paura che nessuno riuscirà a farla tornare agli antichi splendori.
Quando mi allontanavo da casa sua lei mi guardava andare via, dalla finestra che era il suo occhio su quel micromondo, finchè non sparivo dietro l'angolo, ed io mi giravo di continuo per salutarla con la mano. Camminavo sapendo che lei o nonno erano lì a guardarmi le spalle.
Non c'è più nessuno a quella finestra ma l'abitudine si sa è dura a morire, io mi volto sempre a cercarli.
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